Pubblichiamo una recensione del libro “La negazione radicale”.
PILLOLE DI SAGGEZZA SOVVERSIVA. CON QUALCHE INCIAMPO, INEVITABILE
Michele Fabiani, “La negazione radicale”, Edizioni Monte Bove, Spoleto (Pg), 2020.
Immaginiamo il dibattito elettorale degli ultimi lustri. La professoressa di sinistra con la «erre moscia» e il bullo televisivo delle nuove destre. Lei dice: «Vede cavo la vealtà è complessa». Al che lui fa: «Ma quale complessità, è tutta colpa degli immigrati!». Secondo voi, chi le vince le prossime elezioni?. Michele Fabiani, p. 8.
La saggezza a cui mi riferisco è quella nascosta dall’ideologia dominante che, come la religione e la scienza, ricorre all’Ufficio complicazione affari semplici (UCAS), gestito da filosofi, politologi, sociologi e compagnia cantante, per evitare che la miseria della sua essenza diventi evidente. E, come nella favola, un bimbo esclami: «Il re è nudo»!
Di fronte a tante bugie dalle gambe corte, il disvelamento potrebbe apparire semplice. Ma se così fosse, non saremmo avviluppati in mille lacci e lacciuoli che intralciano una coerente pratica sovversiva. Certo, le difficoltà materiali ci sono: dalla necessità di sostentarsi (vitto/alloggio…) all’oppressivo confronto/scontro con le istituzioni (Stato). Ma queste difficoltà, direbbe Totò, sarebbero quisquilie, pinzillacchere… se fosse palpabile la prospettiva per superarle. Ma palpabile non è. E neppure percepita.
Con piacere, seguo Michele nel suo viaggio filosofico-politico, col desiderio di suscitarne l’interesse. Ma tante, troppe sono le questioni al fuoco che è inevitabile la banalizzazione. Son costretto a un’estrema sintesi di 222 pagine, in cui Michele sintetizza più di Ventidue secoli di filosofia e, soprattutto, di porcherie politiche.
Alla ricerca del conflitto perduto
Ed è con l’intento di rendere percepibile (se non palpabile) la prospettiva di superamento sovversivo/rivoluzionario (l’Aufhebung, direbbe Hegel) che si cimenta Michele Fabiani. Impresa eroica che lo spinge a volare alto, nell’empireo delle idee. Per poi calarsi in picchiata e colpire deciso le miserie che la filosofia nobilita in questa valle di lacrime, dove imperano materialissimi rapporti: sono i rapporti di sfruttamento e di oppressione, i cui protagonisti inconsapevoli sono il padrone e l’operaio, il borghese e il proletario… lo sfruttatore e lo sfruttato.
Per portarli alla luce, Michele si addentra nei torbidi meandri in cui le infinite manifestazioni ideologiche nascondono, mistificano, confondono, negano questo elementare rapporto. Anche quando esso appare alla luce del sole, in tutta la crudezza della lotta di classe.
È un viaggio coraggioso che, per dare un fondamento logico alle ipotesi enunciate, costringe Michele a vere e proprie acrobazie teoriche – apparenti calembour linguistici accompagnati da esercizi algebrici –, che potrebbero rendere farraginosa la lettura se non ci fosse l’ironia con cui ci ammannisce il suo pranzo filosofico, pur con qualche sfoggio di erudizione, che non guasta.
Una volta posti paletti discriminanti, con filosofi rispettabili (la Scuola di Francoforte, in primis), rilevandone le aporie, Michele afferra la ramazza. E ce n’è per tutti: iniziando con i furbetti del debolpensiero che scherzan col fuoco della lotta di classe e, senza accorgersene, si bruciano le dita. Si va dal nazista Martin Heidegger (tanto caro ai neo sinistrati!) al presunto esistenzialista Jean Paul Sartre (tanto caro a vecchi sinistrati smidollati), incontrando il Gianni Vattimo, con contorno di servi sciocchi: i vari Diego Fusaro, Alessandro Baricco… Ma ce n’è anche per figure più dignitose [pp. 133 e ss], Foucault, cui Michele aggiunge il furbetto Agamben che, secondo me, ciurla nel manico, per intortarsi libertari da salotto.
Riesumando, infine, gli infelici restauratori di un pensiero forte, di matrice destro hegheliana: Giovanni Gentile, Benedetto Croce, Antonio Gramsci [p. 164], per finire con lo sciagurato Costanzo Preve, leader del fronte rossobruno, quando era in vita. Si salva solo Slavoj Žižek che, riprendendo Hegel, lo supera. Senza volerlo [p. 163 passim].
Fuga nel paese delle meraviglie
Come dicevo, nel corso del suo excursus filosofico, Michele lancia micidiali strali agli attuali miseri fenomeni culturali che ammorbano la scena politica. Sono il frutto bacato di una narrazione immaginaria di un mondo immaginario [p. 12]: dal fondamentalismo islamico al socialismo del bel tempo che fu, passando dal Deep South di Trump e finendo nella Padania del fantasioso Umberto Bossi. La cui fantasia si è oggi trasfigurata nella trìade Salvini-Le Pen-Orban, alla ricerca delle mitiche radici d’Europa, da opporre alla perfida globalizzazione [pp. 24 e 199].
Infinite sono le vie dell’atomizzazione sociale
Da codesto bailamme filosofico-politico, sono sorte le suggestioni oggi in voga, dai cosiddetti studi di genere agli studi post coloniali, più in generale «studi post classisti», in cui «la questione di fondo è la trascuratezza dello sfruttamento nella riproduzione della nostra società a favore di un plurale universo delle oppressioni e dei privilegi: quello razziale, quello di genere, addirittura quello di specie, ecc.» [p. 20]. Con tutte le sfumature possibili. Lo so, è un terreno minato, ma solo per le anime delicate del politically correct. Da evitare come la peste. Ma è bene far chiarezza. L’attuale dilagante atomizzazione del conflitto sociale ha radici lontane. All’origine, troviamo la mistificante coscienza proletaria, o di classe [p. 100 e ss] che, strada facendo, ha via via perso le sue originarie pretese sociali. Si è rintanata nell’individualismo a-classista della psicanalisi e, dopo Freud, si è rinnovata, con sacerdoti à la page, come Lacan [p. 105]. Non perdiamoci nei tortuosi sentieri dei conflitti frammentati, sono infiniti. Si incontrano, si biforcano, si confondono… Michele scatta vividi flash, e c’è anche del buono. O del male? Il razzismo, per triste esempio, è connaturato nell’uomo capitalistico occidentale, come afferma un altro Michele [http://www.michelecastaldo.org/index.php?option=com_content&view=article&id=214:il-razzismo-nell-uomo-capitalistico-occidentale&catid=40&Itemid=29]. E io concordo al 100%! Ma ora riprendiamo il bandolo della matassa e veniamo al dunque.
Scottanti, convergenti premesse
Non intendo disquisire sulla distinzione (dicotomia?) tra la negazione della negazione di Marx e la negazione radicale di Bakunin, cui si richiama Michele, facendone il filo conduttore della sua dissertazione. Per me – Marx e Bakunin –, sono entrambi figli legittimi della sinistra hegeliana, unica sinistra che rispetto. Entrambi la superarono. Fecero poi scelte politiche differenti, non prive di sbandate, ma non contrastanti, checché se ne dica.
Nel corso dialettico, seguito da Michele, approvo in toto la critica demolitrice del concetto di mediazione – la conciliazione degli opposti –, che avviene attraverso le mille seducenti facce con cui la delega democratica si presenta. In breve: il meno peggio! Che apre la via al sempre peggio. Vediamone le premesse. Scottanti!
Mi trovo in perfetta sintonia – non in accordo – col background teorico di Michele: la sua condanna senza appello della «modernità», che altro non è se non la sciocca esaltazione dell’Occidente – l’IDEA di Occidente! –, con i corollari di sviluppo, progresso, scienza e,
dulcis in fundo, democrazia. Un culto che ha il suo corpo mistico nella tecnica ed è pubblicamente officiato da Vecchi Idioti col Telefonino (VIT) che sciamano in ogni dove [p. 136]. Finché App li assiste.
Michele ha il merito di approfondire e di condurre alle estreme conseguenze le tesi che io ho abbozzato nel mio Il sole non sorge più a Ovest. Significati e forme delle rivoluzioni al tempo della Grande Crisi. Riflettendo con Marx: razze, etnie, genere e l’immancabile sfruttamento operaio, All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2017.
E allora: viva il Covid-19! Perché no?
Le vestali dello stato di cose presente (i VIT), di cui parla Michele (p. 136 e ss.), ci propongono un’immagine da incubo: sarebbe la fine della storia – profetizzata da Fukuyama –, ormai giunta al suo apogeo, con la completa globalizzazione/omologazione dell’esistente. Ma è solo una sciocca presunzione. Costoro fanno i conti senza l’oste: il Covid-19 che ha fatto traboccare il vaso di Pandora del capitale, rendendo esplosiva la «negazione radicale».
Da parte mia, ho descritto lo scenario che si presenta in: Ieri, oggi. E domani? Sei mesi di pandemia Covid-19: che cosa è stata e che cosa prepara. In Italia e nel mondo. Appendice: 2020 Esercito nelle strade, guerra permanente, disastri ambientali. Do you remember: Urban operation in the year 2020? [All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, luglio 2020]. Di giorno in giorno, la situazione si va aggravando. Che fare? Con quali punti di riferimento?
Perché sono e resto con Marx
Michele mette molte castagne al fuoco, ma alcune si son bruciate, altre sfuggono dalla piastra. E non sono castagne trascurabili, anzi, per me, sono MOLTO importanti. E buone. Eccole nell’ordine.
1. Anche Michele inciampa (pur senza cadere) nella diffusa confusione tra Marx e i marxisti. Confusione iniziata con i buoni intenti divulgativi di Engels e culminata con Lenin che cercò di adattare Marx alle proprie velleità politiche. Come aveva fatto Nečaev con Bakunin, provocando però assai meno danni, tanto è vero che quelli di Nečaev sono a mala pena ricordati. Quelli di Lenin, pesano come un macigno! Procediamo…
2. Non mi stanco di ripetere che il lato rovente di Marx è la critica dell’economia politica, grazie alla quale, egli cercò di scorgere le contraddizioni insanabili (la negazione della negazione) del modo di produzione capitalistico e prevedere (avvertire?) la rivoluzione. Senza ri-cadere nell’idealismo (o nel millenarismo?), come invece suppone Michele (p. 57).
È una questione delicata che mi ricorda la storiella dell’orologio: quello anarchico, è rotto, ma almeno due volte al giorno segna l’ora giusta, per la rivoluzione. Mentre quello marxista, funziona benissimo, ma i marxisti non sanno leggerlo. E, aspettando al tramonto la nottola di Minerva [p. 55], da cui capire ciò che è avvenuto, non sentono «il galletto francese» di Marx» che, già all’alba del 1848, aveva iniziato a intonare a gola spiegata il canto della rivoluzione. E così, i sordi marxisti cadono dalla reciproca recriminazione, nell’impotenza della diaspora settaria. Miserie, su cui è meglio stendere un velo pietoso, per non farsi distrarre.
3. Marx, come Bakunin, fu sempre sulla breccia politica e, ovviamente, fece molti errori. Ma non pianse sul latte versato. Tirò dritto, correggendo la rotta. Motivo per cui, a proposito del marxismo, parlo di work in progress: un’elaborazione teorica in continua evoluzione, alla luce della critica pratica. Non per nulla, i marxologi recuperano quello che a loro fa comodo, secondo la lezione di Althusser, padre di tutti i più beceri oggettivisti: seguaci della visione surdeterminata della storia. Da chi surdeterminata? Non è dato sapere. Lo Spirito Santo?
4. Citando Marx, Michele ricorda che: «la banalità delle loro cause immediate è il biglietto da visita delle rivolte nella storia» [p. 76]. Non esiste infatti una «scienza» marxista, in grado di prevedere i futuro, come vorrebbero i lottatoricomunisti in servizio permanente effettivo. Esiste però una sensibilità politica che è frutto di una pratica costante di lotta, accompagnata da un altrettanto costante rapporto critico con la realtà sociale. Ciò che propongo, non è però il rimedio universale, perché troppe sono le variabili in cui ci si imbatte lungo la strada della rivoluzione. E la distrazione è sempre in agguato. Chiamala volontarismo, se vuoi.
5. Vediamo allora le forme che, storicamente, la rivoluzione proletaria si è data, per negare radicalmente lo stato di cose presente. Anche, in questo caso, mi richiamo al concetto di work in progress. Pratico, più che teorico. Ovvero, a un processo rivoluzionario che assume le forme di una comunità di lotta. Nulla a che vedere con la comunità nostalgica, reazionaria, immaginaria che Michele giustamente stronca [pp. 167 e ss].
Mi richiamo alle storiche esperienze della lotta di classe, soprattutto alla Spagna rivoluzionaria del luglio-agosto 1936. Comunità di lotta fondate sull’autorganizzazione della vita quotidiana: vitto, alloggio, sanità, istruzione, armamento…
La comunità di lotta una volta che perde la sua funzione non ha alcuna ragione di esistere. Come dice Marx: «le rivoluzioni criticano continuamente se stesse». Una volta che tale critica viene meno, le rivoluzioni si inceppano, regrediscono fino a convertirsi in nuove forme di sfruttamento e di oppressione. Come avvenne nella Comune di Parigi, col passaggio dalla tattica offensiva alla strategia difensiva (aprile 1871), in Russia, col colpo di Stato bolscevico dell’ottobre 1917 e, in Spagna, con la militarizzazione delle milizie (20 ottobre 1936). Nell’Ottobre ungherese (1956), non ci fu neppure il tempo di regredire. In tredici giorni, fu posta la pietra tombale sulle rivoluzioni del Novecento.
6. Dulcis in fundo, lo Stato si abbatte e non si cambia. D’accordo: nessuna transizione sotto forma di Stato proletario ecc. ecc., in attesa della sua estinzione. Tuttavia lo Stato non crolla per «decreti», più o meno violenti. Lo Stato crolla quando ne vengono meno i presupposti che lo fondano: la proprietà privata: madre di ogni sfruttamento e oppressione.
E qui interviene la negazione radicale, tanto cara a Michele e che io riconduco alla crisi sistemica del modo di produzione capitalistico, vaticinata grazie alla critica dell’economia politica, fatta di studi materialissimi e condita con la partecipe attenzione alla realtà sociale, seguendo l’evoluzione/sviluppo della lotta di classe.
Non ci sono scorciatoie.
Dino Erba, Milano, 31 agosto 2020.
Il libro può essere richiesto a: Edizioni Monte Bove, edizionimontebove[at]riseup.net
A questo link è possibile scaricare il testo della recensione come file pdf.