Il diavolo a Grisolia

Il diavolo a Grisolia

L’ultima volta che ho visto Franco Di Gioia era a gennaio. La Calabria era accarezzata dalla neve e su Grisolia spirava un vento gelido. La casa di Franco, priva di termosifoni, era riscaldata solo dal camino. Il vento però ributtava dentro i fumi e la situazione in cui ci trovavamo era al limite dell’intossicazione. Dovevamo aprire regolarmente la porta, per ossigenarci, assediati dal freddo pungente e dal fumo, su due fronti. Mentre cercavamo di revisionare definitivamente il libro che abbiamo pubblicato con le Edizioni Monte Bove, io pellegrinavo tra fuori e dentro, cercando di alternare il sollievo per gli occhi e i polmoni a quello per il corpo. Franco invece era impassibile, davanti al camino, dava il suo contributo all’incendio accendendosi l’ennesima sigaretta. Questa è l’ultima immagine che ho di Franco, un diavolo di anarchico in una casa proletaria in un paese del meridione. Gennaio 2020.

Per me Franco non è mai stato un maestro. Detta così può sembrare un’affermazione sorprendente. Ma vedete il rapporto che si instaura con un maestro è un rapporto verticale, gerarchico. La trasmissione delle conoscenze è unidirezionale, dall’alto verso il basso. Dal primo giorno nel quale sono entrato a casa sua, non ho mai provato soggezione. Mi sono subito sentito a casa mia. Franco per me era un amico, il rapporto che lui instaurava con i suoi compagni era un rapporto orizzontale, la sua voglia di parlare era pari alla sua voglia, ancora a 67 anni, di domandare.

Per questo è così difficile scrivere questo commiato. In fondo, è più facile ricordare un maestro. Se sei stato un bravo allievo, sei sicuramente pronto ad affrontare l’ultimo esame, a sintetizzare l’insegnamento finale del maestro quando lo perdi. Ma quando perdi un amico, non ci sono le parole. Il dolore è di tipo non verbale, quella che provi è la sensazione di un’amputazione.

Per me Franco era un amico vero, un amico col quale senti di avere tutto in comune. Nonostante la differenza di età, di formazione e geografica, io con Franco avevo veramente tanto in comune.

In comune con Franco avevo una certa dissolutezza. Non una dissolutezza moderna, chimicamente prodotta e industrialmente spacciata, ma una cara dissolutezza antica. La dissolutezza del cibo, dell’alcol, delle sigarette, dell’amore. In comune con Franco avevo l’amore per la dissolutezza dell’amore. La dissolutezza delle cose buone, intorno al tavolo. Quella dissolutezza che lo ha portato a trascurare il diabete, con le conseguenze che infine lo hanno portato alla morte.

In comune con Franco avevo l’amore per la nostra terra. Due terre diverse – per me il Centro Italia, per lui il cosentino – ma lo stesso amore. L’espressione esatta è l’amore per la lotta rivoluzionaria nella nostra terra. Qualcosa che a tanti compagni non riusciamo a trasmettere.

C’è sempre il sospetto che il nostro sia una forma di campanilismo, di provincialismo. Nei casi peggiori c’è il sospetto della nostalgia e del folklore.

Niente di tutto questo. Il punto è che la rivoluzione sociale, mondiale, per definizione va fatta anche a Spoleto e a Grisolia. Noi siamo quelli che la vogliamo fare qui. Quelli che organizzano i lavoratori e i disoccupati di Grisolia, che innalzano le barricate, che circondano la caserma dei carabinieri, che difendono la fabbrica occupata dagli sgherri e dai mafiosi con le armi. Altro che campanilismo. E’ la concretezza dell’anarchismo insurrezionalista. L’anarchismo che le insurrezioni le organizza davvero, pensandole militarmente e socialmente con le forze del territorio. E’ l’internazionalismo di chi la lotta di classe la comincia dai padroni di casa propria. Pensando ai boschi e alle fabbriche da prendersi, e ai palazzi della politica da occupare, alle forze nemiche da circondare.

Io credo che sia stata questa concretezza a spingere Franco, Domenico e altri emigranti di questo piccolo comune, radicalizzatisi in fabbrica a Milano durante l’autunno caldo, trovato nell’anarchismo la militanza più sincera per i propri sentimenti di libertà, a tornare a Grisolia per aprire un circolo anarchico.

Questa concretezza anarchica insurrezionalista Franco me l’ha ribadita durante l’ultima telefonata, in ospedale. Circa la situazione della crisi connessa al Covid-19, Franco ha commentato, molto lucidamente, che tutti i nodi vengono al pettine. Franco sapeva tenere insieme questo, la critica al sindaco e al prete di Grisolia, con uno sguardo di insieme rivolto contro la società nel suo complesso. Una società dove pochi uomini hanno miliardi e miliardi, e molti, troppi sono ridotti alla fame.

Contro questa società Franco ci ha ricordato, con l’ultimo fiato che aveva in gola, l’assurdità di un’umanità governata dagli Stati e dai capitalisti. Se proprio dobbiamo parlare di una lezione che Franco ci lascia, questa è la semplicità e la concretezza della rivoluzione. Non è qualcosa che dobbiamo predicare o che dobbiamo attendere per i tempi migliori. E’ qualcosa che dobbiamo far precipitare subito, la sola alternativa concreta – adesso! – alla catastrofe, se è vero che la borghesia lascerà solo macerie alla fine della sua storia, come ha profetizzato Durruti.

Ciao Franco, grazie per essere esistito!
E non riposare in pace, continua ad agitarci.

Emmeffe